nella poesia di Carmine Papa
La dignità del lavoro campestre si rivela pienamente nella poesia che Carmine Papa dedicò ai contadini nel 1871. In essa lo zappatore invita i suoi compagni a meditare sulla nobiltà della loro fatica, più preziosa di ogni altra, pur se disprezzata indegnamente e relegata nei gradini più bassi dell’assurda scala di valori della società egoista, ingrata ed ingiusta. Il poeta immagina di trovarsi tra alberi di lumìa, rose, gigli e gelsomini ed ammira la grandezza di Dio e l’opera del contadino. Egli osserva che la terra è la prima maestra e la fonte principale della nostra vita. Essa è una cateratta chiusa, che il villano apre senza vantarsi, per sostenere la vita umana. Nelle valli e sulle colline, nelle pianure e sui monti il contadino pianta vigna, meli, peri, ciliegi, fichi, aranci, limoni ed altro ben di Dio, ma non sente adeguatamente la grandezza della sua arte primaria.
Siano benedetti le zappe e gli zapponi, sostegno del nostro vivere, siano benedetti gli umili contadini i quali lavorano senza orario, con affanni e stenti, ed affidano alla terra quei cereali, che costituiscono il principale nostro sostentamento. Le zappe, pertanto, sono le prime ricchezze, le zappe sono gli scettri d’oro, le zappe sono più necessarie delle armi perché queste ammazzano mentre quelle nutrono e vestono gli uomini.
Dopo avere esaltato con parole vibranti l’arte del contadino, fatta di sapienza, di fatica e di silenzio, Carmine Papa leva la sua voce fiera e sdegnosa contro i ricchi possidenti i quali, in quel tempo, a dispetto di ogni morale e di ogni carità, trattavano tanto male i lavoratori della campagna, dando loro una piccolissima parte dei frutti della terra e lasciandoli vivere in ambienti indegni di umana abitazione.
Il poeta aveva un’anima sensibilissima, che mal tollerava il disprezzo di quei signori saccenti e boriosi, i quali assumevano atteggiamenti di autosufficienza ridicola dinnanzi ai campagnoli.
Ad essi egli dice che i contadini non possono e non debbono essere disprezzati perché sono rozzi, a volte, ed ignoranti, perché non leggono libri e non sanno scrivere, perché non hanno studiato.
Essi, in verità, studiano piantando alberi e fiori; essi costituiscono con la terra e la zappa una trinità feconda di frutti almi e preziosi. Uomini guerreggianti e coraggiosi, continua il poeta, uomini grandi, uomini di talento, che discorrete “e come scappa, scappa” guardate i contadini, a cui la pelle si raggrinza al sole, nella diuturna fatica. Essi hanno la medesima sorte delle api industriose che nei campi e nei prati raccolgono il miele dai fiori, ma poi vengono spogliate del frutto della loro assidua fatica. La poesia, grondante di amarezza, di sdegno e di dignità finisce qui e Carmine Papa, per sottolineare ancora, la superiorità delle zappe sulle armi, rievoca brevemente la spedizione napoleonica in Russia, conclusasi con la ritirata che determinò il tramonto del grande Còrso.
Napoleone volle andare sino a Mosca, ma trovò le pianure immense bruciate e secche, senza frumento, senza patate, senza alcuna zappa né contadino. E fu la sua fine. A che giovano dunque, conclude lo zappatore di Cefalù, la forza e la potenza, gli scettri e le corone? Soltanto la terra dà a noi l’esistenza mediante la zappa e lo zappone. “Scusati siddu dicu ’mpertinenza: Viva la zappa, abbassu lu cannuni!”
Quando i cosiddetti grandi della terra muteranno in zappe e trattori le terribili armi micidiali e scompariranno tutti i militaristi dalla faccia insanguinata dal nostro pianeta l’uomo potrà serenamente vivere la sua effimera giornata terrena e gridare, senza tema di commettere impertinenza: “Viva la zappa, abbasso ogni cannone”.
Salvatore Termini (1965)