La temporanea insania del Carnevale non lasciò mai indifferente Carmine Papa, il quale ne trasse materia per alcuni canti, che amò recitare stando su un carretto tirato da un’asina e condotto dal fratello Giovanni.
I nostri nonni attendevano il Carnevale per divertirsi, per spogliarsi della maschera quotidiana, per riempirsi la pancia, per dire ad alta voce ciò che non era loro consentito di sussurrare nel resto dell’anno. Carmine Papa, in veste di giullare carnevalesco non mancò mai all’appuntamento annuale con i suoi concittadini che lo seguivano amorosamente per sentirlo recitare o improvvisare qualche strambotto sulle piazzette divenute stazioni di pellegrinaggio poetico. Il pensiero corre al carro di Tespi ed al popolo ateniese: come Atene apprendeva dalla voce del suo poeta girovago i misteri dell’aldilà, cosi Cefalù raccoglieva da quella del suo poeta zappatore “il riso dolente” sulle follie e sulle miserie umane. Diversa la materia del canto, ma uguale la partecipazione popolare, identico il carro montato da un poeta nativo.
Mentre il precursore di Eschilo attingeva ai misteri di Dionisio, il Papa, ispirandosi agli eterni problemi della commedia umana, rideva e piangeva, insieme con i più umili lavoratori cefalutani al suono della sua rustica zampogna.
Se il Meli è giustamente considerato il Dante della Sicilia, Carmine Papa può ritenersi il Meli di Cefalù.
Nei pochissimi canti carnascialeschi dati alle stampe, il poeta sostiene che il Carnevale è una commedia molto antica, inventata per dar modo alla gente di saziarsi di maccheroni, carne, vino e cannoli e per consentire ai pazzi di uscire avvolti in lenzuoli o in abiti conservati da tempo nelle vecchie casse. Mentre si danno al tripudio, i poveri non possono che fare un finto stufato d’aglio ed impegnarsi i redditi per festeggiare le ricorrenze. Il poeta dice di aver preso un topo e di essersi illuso di poter risolvere, almeno per un carnevale il problema della carne, ma di essere stato costretto a digiunare per la voracità di una gatta invidiosa.
Tra l’impazzare generale, non gli rimane che il canto, pago della sua corona di alloro, felice di poter vagare per la città sopra il suo carretto, mentre ovunque si balla, si fanno festini, si commettono spropositi, si macchinano imbrogli, si organizza ogni sorta di baldoria e tutto si sacrifica al ventre, che vuol bere e ancora bere , mangiare e ancora mangiare. Il poeta oltrepassa i settant’anni, sente spegnersi in sé le energie vitali e l’ispirazione delle Muse. I divertimenti spensierati e l’allegria chiassosa non si addicono più al saggio e canuto cantore, che, del resto, non ha mai partecipato al Carnevale per gioire o divertire, ma per pensare ad alta voce e fare riflettere i suoi ascoltatori.
Al di là dell’apparente buffonata egli osserva i vizi degli uomini e, sentendo in sé i germi della morte, sorride indulgente a quanti vogliono dimenticare per qualche ora la fatica della giornata terrena.
Ripongo il libretto di Carmine Papa, consapevole della vanità della vita che corre verso la morte, e mi consola l’oraziano ammonimento: “Cogli l’attimo che fugge, non fidar nel domani, considera ogni giorno un guadagno”.
Una volta all’anno è lecito fare follie.
Salvatore Termini