In un povero convento cefalutano, di sui si è perduta la memoria, vivevano di lavoro e di preghiera pochi religiosi appartenenti ad un ordine non bene identificato.
Non dovevano essere frati cappuccini né frati minori conventuali, non padri domenicani né frati minori osservanti, non padri eremitani di S. Agostino né padri carmelitani, perché questi, nel passato, a Cefalù, non erano né poveri né pochi nei rispettivi conventi.
I nostri monaci erano privi di fabbricati, di terre e di beni ed uno di essi, il più giovane, magro e sparuto, non possedendo neppure la tonaca, ne sollecitava quotidianamente l’acquisto.
Il padre superiore rispondeva sempre col solito ritornello: “Confratello, non abbiamo denaro”.
Allora il frate senza la tonaca chiese di fare per qualche tempo il dispensiere ed al superiore diffidente disse che sarebbe così riuscito a comprarsi il desiderato saio senza sottrarre alcunché dei viveri a lui affidati.
Si fece l’inventario dei generi alimentari conservati nel magazzino e la chiave fu consegnata al fraticello il quale da quel momento, provvide al vitto della comunità sotto la diretta vigilanza del superiore, che registrava personalmente il rifornimento e la distribuzione di ogni cibo. Niente poteva sfuggire al controllo né essere venduto; eppure dopo alcuni mesi, l’astuto monachino, vestito di una tonaca nuova, riconsegnò la chiave e chiese di essere dispensato dal compito di magazziniere.
Venne effettuata un’accurata ispezione dei viveri: non mancava nulla, al di fuori di ciò che era stato prelevato dal superiore per la comunità, e non si comprendeva donde fossero venuti i soldi per la tonaca nuova.
C’erano qua e là, sul pavimento, delle lattine sporche di grasso, mai viste prima di allora ed il padre direttore domandò che cosa ci stessero a fare.
Vede, rispose il fratino, io ho acceso un bel fuoco, ogni giorno, sotto ad ogni prosciutto appeso alle travi e così l’ho riscaldato sino a farlo gocciolare. Ho raccolto quindi, con pazienza, il grasso caduto, l’ho venduto e mi sono procurato il denaro per la tonaca.
Reverendo confratello, “cui manìa, si unta”.
Salvatore Termini (Aneddotica Cefalutana, 1978)